parole profetiche di un grande umanista

Aldo Moro, umanizzare la tecnica

Lo spirito cristiano che animò la vita e l'opera di Aldo Moro risalta chiaramente in un suo scritto volto a promuovere l'umanesimo della tecnica

di Gianluca Valpondi

Aldo Moro
Aldo Moro

Davvero sento vibrare nelle parole di Aldo Moro lo stesso spirito cristiano ardente e ardito di Maurice Blondel. Il profeta (dal greco pro-femì, parlare per, al posto di, davanti a, in vece di) non è tanto chi prevede il futuro, quanto piuttosto è colui che parla per Dio, in Suo nome, per ammonire, correggere, incoraggiare, confortare, guidare, illuminare il popolo. Col battesimo cristiano si diventa re, profeti, sacerdoti e dunque abilitati al dominio di sé, al dono di sé, e alla funzione profetica. Non per niente mons. Giovanni D’Ercole all’incontro di quest’anno a Roma coi militanti del Popolo della Famiglia ci ha esortato convintamente: “Siate profeti!” Essere profeti nell’impegno politico vuol dire anche seguire le orme e l’esempio del nostro fratello in Cristo Aldo Moro, grande maestro di umanità, perseguitato come tutti i profeti, ucciso dai nemici di Cristo. Facciamolo rivivere e la sua anima ci assista.

Da tempo nello spirito del cristianesimo noi combattiamo contro la pretesa esclusiva della tecnica di dominare la vita umana, contro quel suo porsi non solo e non tanto come strumento di civiltà, quanto piuttosto come la meta ultima e la profonda soddisfacente ragione di vivere. Non da ora combattiamo, quando i frutti amari di questa deformazione della vita e inversione dei valori si fanno chiari a tutti tra tanto disordine e tanto sangue, ma sin da quando la tecnica appariva un poderoso fattore di progresso e un mezzo incomparabile per determinare e aumentare il benessere sociale. Come impulso alla intransigenza ci parve bastasse una ispirazione cristiana vigorosa, una profonda comprensione di quella intuizione del mondo che riduce ogni problema in termini di moralità e di responsabilità individuale. In questa luce non occorreva una lunga fatica per accorgersi dello spaventoso vuoto che il fulgore della tecnica raffinata e del suo successo non riuscivano a nascondere. Bastava guardare un po^ lontano, per notare che questo mondo possente di macchine e ricco di beni era straordinariamente debole di energie morali, che quella ricchezza di tutto era in fondo mancanza del tutto, della sola cosa necessaria, e poteva volgersi rapidamente in rovina, che quel progresso poteva essere troppo facilmente fuorviato verso una qualsiasi inumana meta di perdizione, che insomma all’uomo mancava un vero respiro di vita e che egli era sacrificato e condannato. Senza soluzione alcuna oggi continuiamo quella battaglia. Essa è veramente una buona battaglia per una causa giusta. Riprendiamo sospinti dalla stessa ispirazione con eguale intensità, con trepidazione, se è possibile, maggiore. Perché oggi la minaccia alle risorse umanistiche che il nostro spirito è capace di esprimere, è seria e grave come non mai, mentre ci sollecita la certezza che ora davvero tutto può essere guadagnato o perduto per un attimo solo di attenzione o di distrazione, per una coraggiosa presenza a noi stessi o per un nuovo, e definitivo, abbandono. Che cos’è altro infatti quel lungo parlare che si fa della ricostruzione, se non un cieco affidarsi, in un’estrema fiducia, alle risorse della tecnica, di quella stessa tecnica che, tra costruzione e ricostruzione, seppe pure distruggere con una terrificante facilità, con una micidiale potenza? E questo spirito, che s’afferra alla prima e più immediata e più urgente possibilità, s’insinua anche tra noi e tenta, mentre la fretta appare giustificata dinanzi a tanta rovina e il bisogno avanza incalzante, la nostra anima cristiana, quella che non può patteggiare sull’essenziale, se non vuole tradire. S’insinua questo spirito del successo delle piccole cose da fare con l’ausilio di poche idee, con disdegno soprattutto di quelle idee generali che appunto non aiutano il fare e non costruiscono, nella nostra coscienza professionale, che mirammo così lungamente a sollevare dal contingente, perché a esso potesse ritornare rinnovata e purificata con un impegno maggiore e soprattutto con una meta chiara. Certamente una professione non può non essere al servizio della tecnica, tecnica essa veramente che traduce un sapere e lo rende operoso ed efficace. Oggi sì, come ieri forse, anzi oggi più di ieri, se guardiamo al tanto da fare che attende il nostro lavoro intelligente. Certamente il nostro sforzo ha da essere volto oggi come ieri a impostare ogni problema di tecnica come un problema di verità e di carità e a tradurre (che è una cosa sola) verità e carità nei termini della tecnica professionale. Oggi occorrono, per questo grande lavoro da compiere, la massima vigilanza, la massima attenzione, la massima dedizione. Si serve la causa dell’umanità, facendosi solleciti delle piccole cose badando a esse, perché nessuna sfugga e nulla in esse, vivendo in una parola quell’umanesimo della tecnica, che è come una passione concentrata e mortificata fatta, per ciò stesso, più grande. Ma non possiamo rinunciare alle cosiddette idee generali e a quella humanitas che esse generano ed esprimono. Per quanto diviene maggiore lo sforzo di presenza e di attenzione in un mondo fatto di mille cose andate in frantumi e da rimettere su in qualche modo, per tanto occorre una maggiore ricchezza ad alimentarlo. Più verità soprattutto, più carità. Le quali non siano un autocompiacimento pomposo, una fastidiosa retorica, un velo pietoso che nasconda, per una facile pace da conquistare, i bisogni del mondo che attende opere e opere, ma un sereno aprirsi alle ragioni ultime, un poco disegnare mete lontane, un omaggio reso all’uomo nella sua propria umanità, un’accettazione vigorosa dei valori nella loro gerarchia. Prima resta la tecnica della vita morale e la sapienza che la condiziona e accompagna costantemente. Da questo punto di partenza ogni progresso è possibile, diremmo, naturale e necessario. Fuori di questa premessa tutto si risolve in un vano avvolgimento, nel quale l’uomo celebra, assurdamente soddisfatto, la sua fine. Giova ricordare queste cose all’inizio di un anno che la straordinaria urgenza dei tempi vuole pieno di opere; un anno fattivo nel quale molto sarà domandato alla tecnica e al buon volere degli uomini. Ma perché non si smarrisca la strada, perché questo fervore abbia una misura e una ragione, teniamo alta l’idea dell’uomo cui la tecnica serve, ma che non serve egli alla tecnica, dell’uomo che lavora a servizio di Dio e dei fratelli e nel quale l’amore vale più dell’opera, piccola o grande, in cui si esprime.” (A. Moro, 1946, in Scritti e discorsi di Aldo Moro, Edizioni Cinque Lune)

Quanto suonano attuali oggi queste parole di sapienza, oggi che sempre più spesso si sente parlare di tecnocrazia, oggi che trans-umano e post-umano fanno la voce grossa spacciando per avanguardia dell’umanità la “cultura dello scarto” (cf. papa Francesco) applicata alle persone, oggi che l’uomo gioca a fare dio e s’illude che la tecnica possa regalarci un’umanità migliore a prescindere dalla distinzione tra il bene e il male, come se il progresso tecnologico sia automaticamente sinonimo di progresso umano; oggi che il servire Dio e i fratelli è un’opzione tra le altre, subordinata alla ragion di Stato e alla dittatura “dell’io e delle sue voglie” (cf. Ratzinger). Ci serve un surplus di umanità per non essere sopraffatti dalla nostra stessa libertà impazzita, per non cadere nel terribile tranello di utilizzare la tecnica per asservire e avvilire l’uomo, anziché per servirlo, elevarlo ed esaltarlo nella sua vera grandezza di imago Dei perché capax Dei, per quanto futile, improduttiva o indegna possa sembrare la sua vita, che invece è sempre, in ogni stadio e condizione, sacra. Se la tecnica non rispetta la vita umana, soprattutto quando essa vita umana è più fragile e bisognosa, non è più tecnica umana ma inumana, e allora è solo normale il revival in grande stile dell’eugenetica nazista o che, invece di rendere l’Africa un posto buono dove vivere, si spende e spande assurdamente in armi distruttive. In fondo Moro ci chiede solo di essere umani. Ci crediamo Dio? Ebbene, anche Dio si è fatto umano. È la strada per essere veramente divini. È la strada dell’amore perché Dio è amore e “solo l’amore ha un significato; esso innalza le nostre più piccole azioni verso l’infinito” (S. Faustina Kowalska, Diario).

Giovedì 27 settembre 2018