di Vincenzo Punzo
AVERE UN PADRE
La sacra famiglia di Nazareth, composta da Maria e Giuseppe, è l’anello di congiunzione da cui discende tutta l’umanità.
San Giuseppe è capo della Sacra Famiglia e sublime modello di vigilanza e provvidenza; divenne esemplare di paternità, sposo di Maria e padre putativo di Gesù. Questa figura mi induce a impegnarmi, nella vita, all’interno della famiglia e della società come figlio, come sposo e come padre. In qualità di figlio ho avuto una splendida famiglia, ero il sesto di sette figli, ma qualcuno dall’alto ha deciso che dovessi avere un padre a tempo determinato, infatti a dieci anni ero già orfano di padre e da subito è scattato il mio individualismo, realizzato solo al compimento dei miei 18 anni, quello di cercare altrove una dimensione di vita più conforme alle mie necessità e a quelle della mia famiglia.
Viste le circostanze e la condizione di essere orfano di padre, da figlio è come se in casa si spegnesse la luce e bisognasse aprire le finestre e farsi illuminare dalla luna… se c’era… quindi con il tempo si navigava nel buio, questo per capire come vivevo quella assenza, ma nonostante tutto ho dei bellissimi ricordi.
Prendo in prestito e condivido con tutti voi una lettera capitatami per caso nelle mani, si tratta di un figlio adulto che scrive al padre, mentre io sono rimasto solo al suo ricordo da bambino.
Lettera al padre
Ora tocca a te.
Guardo indietro, vai a sapere se un bene prezioso come il tempo mi ha lasciato qualche briciola, una traccia, un’eco.
Vorrei tornare a quando, svogliato, ho omesso le parole che giudicavo di troppo. Aspetto il treno e guardo le colline.
Le nuvole si fermano là, non mi pare minaccino pioggia.
Ti vengo a trovare questo fine settimana. Ho in tasca il telefono e aspetto una chiamata, la tua voce.
Ma no, ora non mi serve, il silenzio ha preso il suo spazio, accarezza la vita che resta ed è compagno del tuo ultimo soffio. È già il tempo del ricordo.
Noi uomini abbiamo bisogno dell’infinito in questo quotidiano che è spesso crudele, grigio, colorato di rarefatto.
Spremo la mente per provare a ricordare il tuo ultimo sorriso, o meglio, una risata e tu che pronunci il mio nome.
Adesso le foto in bianco e nero ancor più rammentano l’importanza degli affetti. Resto brevemente in attesa prima di svoltare la pagina dell’album.
Qui mi prendevi seduto tra le tue gambe e mangiavamo assieme dalla tua gavetta nella pausa turno.
Questa con il lago di montagna, i pini, il sole, la mamma e mia sorella con le scarpe da ginnastica.
WE poi qui con gli abiti di un’altra era di bambino, mentre si sale la collina del santuario.
Superga e il Grande Torino e a te che neanche piaceva il calcio.
Poi la svolta, la solitudine che sembra infinta. La tua amata persa, la sbandata.
E quegli occhi improvvisamente umidi.
Le vene, vecchie, si afflosciano, la volontà viene meno e i compleanni ti sembrano vuoti.
Si chiude una casa, si mettono le lenzuola al divano con i bracci lisi, che si scaldava di persone sedute a chiacchierare, a ridere, a scherzare, qualche volta a cantare in dialetto per non perder radice.
Io resto solo, padre?
Questa lunga tua vita mi ha privilegiato a non vedere fino ad ora il testimone nelle tue mani appena fredde, di una domanda ancora senza risposta.
Quindi mi chiedo: -Ho avuto un buon padre perché ero un bravo figlio oppure è diventato importante semplicemente su ragionare chi eri, padre?
La tua generazione resta nel cuore di questa generazione, quella tua della miseria e della fame, della guerra e della ricostruzione, questa mia della gioia ma degli eccessi, dell’euforia per il futuro e quella tua del malessere che resta per chi ha visto la morte in volto e non ha potuto neanche dimenticare il passato.
Io non ti ho capito totalmente per quel linguaggio per noi antico, desueto e serio, per quel rispetto richiesto e che non ti ho dato apposta, per ribellione, per dirti che non ti credevo.
Volevi forse i voi, ma certamente cercavi il noi, quel calore negato dalla madre e non avuto da bambino, la gioventù spezzata, tradotta poi nella rudezza dei sentimenti di adulto, gli alti e bassi di una vita pienamente vissuta, pesante e pesata. -L’uomo non piange mai, è un segno di debolezza-.
-La donna non va picchiata neanche con una rosa-, -Ora parlo io- ma sotto sotto le cedevi il timone.
Le contraddizioni sono meglio delle esclusioni, ci danno il segno della minuta fragilità che convive in noi,
Io sono sempre alla ricerca dei perché e spero tanto di riuscire a darmi e concedere alcune risposte chiare, che siano capite, accettate e amate.
Forse che quel seme di domande debba saltare di generazione?
Mi chiedo: sono sollevato dalle responsabilità, così che sarà un altro figlio a rispondere?
Dedico una certezza.
La vita resta gratuita, un bene eccelso come il buon pane fragrante o la bevanda limpida e fresca.
Tutti i padri, buoni o no, lo vogliano o meno hanno generato una vita e lì infine segnano la loro.
So che hai cercato il bene per me e io sono quieto. Ho il dovere di continuare.
Alla fine, giudicato, vorrei rivederti padre, e lì avremo bisogno di far domande, perché finalmente non ci saranno ruoli da sostenere.
Semplicemente e serenamente avremo già ascoltato, grati, le nostre risposte.
Scriveva Socrate: il senso della vita sta nella relazione.
Vincenzo Punzo
Savona, 14 marzo 2020
Mercoledì 23 settembre 2020
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